Fa freddo, Gerusalemme ti regala giornate di sole anche d’inverno dove la luce è meravigliosa e diviene meraviglia per gli occhi e per il Cuore al tramonto, la città si tinge di oro, palpita nei
raggi dorati che virano in ombre magiche che si allungano e si stendono verso l’orizzonte…
Ma oggi fa freddo, e dopo radi e parsimoniosi squarci le nubi si chiudono e il cielo diviene plumbeo, brutta luce, tutto si appiattisce perde tridimensionalità si perde la profondità dei volumi,
no, non mi piace questa luce. Sono al Kotel, sto in mezzo agli uomini che pregano, mi muovo con lentezza tra di loro, ormai faccio parte del paesaggio comune. Ogni tanto mi avvicino al muro, vi
poggio la fronte e le mani, aperte come ad assorbire energia, ogni tanto mi avvicino, mi ricordo di qualcuno e lo pongo su quelle pietre che esalano preghiere da millenni. E’ calda quella pietra,
potesse parlare si sentirebbe la voce di Dio, quella del Tuono che ha fatto Cielo e Terra, Colui che tutto può, il Potente in battaglia che stende il suo braccio e vince. Ma anche quella del Dio
che si è fatto Uomo, umile che ha condiviso la gioia, le lacrime e il sole di Gerusalemme, quello che si è identificato negli Ultimi, quello che pronunciato parole incise per sempre nel
Cuore dell’Uomo..
Ogni tanto mi ricordo un nome, una situazione e mi avvicino, prego e sto in silenzio, il rumore di fondo si abbassa e non so più dove sono, ma toccare quella pietra mi da tanta serenità ..
Porto la kippah nera, fatta a mano, pesante come gli ortodossi, non mi confondo con i turisti anch’essi armati di fotocamere, ma la differenza gli uomini in nero la notano, e anche loro non mi
confondono, io sono il cristiano fotografo che spesso hanno inglobato tra loro mentre io assorto non mi accorgevo che intorno a me si radunavano rabbini dondolanti e a fatica uscivo dalla calca
tra peoth al vento e sguardi che mi trapassavano vedendo solo il Muro. Una volta mentre ero appoggiato mi è caduta la Bibbia in terra, un rabbino si è chinato, l’ha baciata e le me l’ha resa.
Prima di darmela l’ha sfogliata e ha visto l’icona del Volto di Cristo, l’ha guardato attentamente, mi ha guardato attentamente, mi ha sorriso e si è accarezzato le peoth, indicandole sull’Icona.
E’ strano, è inusuale, sia che si sia chinato sia che l’abbia baciata, poi mi sono ricordato chi era, mi aveva dato la benedizione il giorno prima, mi impose le mani sul capo, volle sapere il mio
nome e quello di mia moglie, un lampo di tristezza e di compassione quando seppe che non avevo figli, poi la benedizione. Poi scoprì che non ero ebreo ma cristiano e mi chiese, perché sei qui?
Risposi iniziando lo “Shema Israel” e lui sorrise profondamente..
Ma fa freddo, la luce non mi piace e non voglio essere di nuovo ringlobato nel dondolio perenne, tra l’altro stanno arrivando gli askenziti quelli con il cappello di pelliccia, impossibile alzare
la macchina fotografica senza beccarsi improperi e non mi va dopo quei momenti di serenità rovinarmeli per uno scatto in più o in meno al kotel.
Fa freddo, meglio camminare, mi viene in mente di andare a Mea Shearim il quartier ultraortodosso di Gerusalemme, so come arrivarci e con passo deciso mi avvio.
Mentre vado controllo l’attrezzatura, ok a posto, batteria carica, scheda da 32 giga vuota, impostato a priorità di tempi, montato obbiettivo ultrangolare, so bene che non posso alzare la
macchina al viso, quindi cercherò di rubare qualche immagine tenendola in mano lungo il fianco come niente fosse, penso, vai! Sei pronto, vai e fai il servizio come si deve, attimi fugaci,
immagini rubate di vita quotidiana, vai, cinico, determinato, risoluto, porta a casa la pagnotta.
Arrivo a Mea Sherarim, fa ancora più freddo, mi accoglie un cartello con su scritto, non siamo animali da zoo se entri porta rispetto.
Ah!
Cominciamo bene, penso.
Inizio a guardarmi intorno, noto l’assenza totale delle bandiere di Israele, poca gente per strada, rare le donne che se non sono giovani portano tutte la parrucca, no, le giovani no, ma
indossano un fazzoletto sul capo a mascherare i capelli. Mi passa davanti una donna con il fazzolettone, gli occhi mi cadono sul collo e vedo che ha rasato i capelli che potevano uscire fuori da
esso.
Continuo ad addentrami in Mea Shearim, c’ero stato già altre volte, a parte quando ci passo con l’autobus che dalla stazione mi porta al kotel, c’ero stato ricordo in estate, avevo girato con
altri lungo i viali principali e visto i negozi o le botteghe sulla strada, ma all’interno non mi ero mai azzardato. Ora invece mi inoltro nelle strade interne senza timore, cammino con calma,
passeggio, mi fermo, guardo, mi giro, alzo lo sguardo, è evidente che non sono del luogo, è evidente che sono un turista con macchina fotografica in mano, ma non è evidente che non sono ebreo,
porto la mia kippah nera da ortodosso, mi fermo nei negozi di articoli religiosi, tocco la stoffa dei talith, alcuni li provo pure, contratto per una Yad in argento che il tizio barbuto e
ortodossissimo vuole far passare per l'inizio 700… see vabbè, gli vorrei dire, ahò sò de Roma, ma sorrido, ringrazio ed esco dal negozio.
Però ho preso gusto e mi addentro ancor di più nei vicoli. Altro enorme cartello “Noi non siamo Sionisti” e un altro “Israele non deve esistere” …….
E infatti Israele non è, o meglio, Mea Shearim ha leggi tutte sue, se la sbrigano tra loro, la polizia non entra, se c’è un incendio non si chiamano i pompieri, ce la si sbriga da se… ma questo è
un altro discorso che non è il caso di fare adesso, però è importante per capire l‘humus ambientale in cui mi trovo.
Entro, entro ancora, nessuna percezione di pericolo, tutto tranquillo, ma quei cartelli mi hanno infastidito e sto attento a come mi muovo e a cosa faccio. Ormai la macchina fotografica dondola
sul mio fianco appesa alla cintura monospalla, sarò pure un turista ma non fotografo, cosa che vedo viene apprezzata. Entro ancora di più all’interno, e mi si apre un mondo.
Ho appena varcato l’ingresso di un cortile, sono entrato in uno Shtetl (villaggio ebraico dell'Europa dell’Est) sono tornato indietro nel tempo. Non sento più parlare ebraico ma Yddish, la
cadenza, la parlata sembra una parodia sui russi, la gente dentro il cortile mi vede riporre la fotocamera in borsa, mi guarda per un attimo ancora e si volta a fare le cose che facevano come se
nulla fosse.
Nessuno mi ha chiesto nulla, nessuno si è avvicinato ma ero libero di camminare e guardare come volevo. Mi siedo su un sedile di pietra e guardo la vita che scorre. Si sono già accese le prime
finestre, vedo la vita oltre di esse, o almeno la sbircio, la finestre sono piccole, hanno gli scuri di metallo con delle feritoie, i palazzi non superano i tre piani, non credo che vi sia
l’ascensore, i portoni di ingresso sono senza porte, si vedono le scale scarsamente illuminate.
Alcuni uomini sono a gruppetti e parlano tra loro, alcuni sono a coppie e parlano fitto fitto, altri portano la mano alla bocca per non farsi leggere il labiale, mi accorgo che sono l’unico
occidentale li, l’unico a non avere l’abito tradizionale, l’unico a non avere le peoth e sicuramente l’unico non ebreo. Gli uomini sfoggiano abiti di tutti i tipi, a parte il classico vestito
nero con il cappello a larghe falde che pochi indossano gli altri sembrano una sfilata dei migliori modelli di oltre un secolo fa in russia o in polonia. Colbacchi di pelliccia, coprono le teste
rasate adornate solo da lunghissime e bellissime peoth, curate sino all’ossessione, toccate, arrotolate, lunghe e fluenti. Alcuni le hanno fini che fanno girare intorno alle orecchie più volte,
altri le tengono libere e ondeggiano ad ogni movimento del capo, i bambini lunghe e lisce, sbarazzine oserei dire. Gli abiti neri, paltò neri, i pantaloni a volte corti sino al ginocchio completi
di calze scure e scarpe rigorosamente nere. Altri hanno abiti a mò di casacca, a righine verticali bianche e nere, tutti gli uomini hanno la barba eccetto chi veste con il l’abito nero nero con
giacca e camicia bianca semplice semplice tanto da sembrare io stesso più ortodosso di loro. La luce diviene fantastica, e mi pento di aver messo dentro la macchina fotografica. Mi alzo ed esco
al cortile, torno fuori e paradossalmente anche se in piena Mea Shearim, torno agli anni duemila.
Fuori un gruppo di bambini corre per strada, si tengono la kippah con una mano mentre corrono, c’è vento che sta spazzando le nubi, ogni tanto filtra qualche raggio di luce come dopo la pioggia
che illumina la scena con maestria e capace sintesi di luce e ombre che si rincorrono come andassero dietro ai ragazzini. Cammino e sto attento a guardare rapidamente verso le aperture che scopro
camminando, Cammini e improvvisamente mentre passi vedi che quella rientranza in realtà è l’entrata di un negozio su strada, a volte devi salire qualche gradino a volte scenderli, ma subito ti
rendi conto che all’interno c’è vita, merci e gente che fa la spesa o compra o vende, fermarsi e guardare attentamente sarebbe come guardare dentro la finestra di una casa, mi sembra fuoriluogo e
passo oltre. Questo si ripete continuamente tanto che mi rendo conto che avrò fatto pochissimi scatti ma ha impresso molto con gli occhi. Guardo l’orologio e vedo che è passata quasi un’ora e
mezza da quando sono entrato a Mea Shearim, il salto indietro nel tempo deve aver scombussolato il mio orologio biologico. Esco e sto per andare via, mi dico, su via, qualche scatto fallo. Tiro
fuori la macchina e mentre lo faccio mi rendo conto che sono davanti ad una Yeshivah (scuola di Torah) e c’è un giovane rabbino sulla porta che mi guardo torvo, come a dire appena mi fotografi ti
faccio nero!
Ma io non gli do soddisfazione, la miglior difesa è l’attacco, abbasso la camera e gli vado incontro. Non se lo aspettava e mi guarda incuriosito. Gli domando nel mio fluente ebraico (ehhhhh
sembra vero) Slichà adonì la tachanà merkazit, bevakashà? (Scusi Signore, la stazione centrale per favore? So benissimo dove e come ci si arriva) e lui umiliandomi mi risponde in
inglese, devi prendere prima l’autobus n°…. e io, no no a piedi.
A piedi?????????????
Manco avessi bestemmiato il Santissimo!!!!!
Si gli dico, a piedi. E lui, nooooooooooooo e mentre lo fa scuote vigorosamente la testa, le peoth cominciano a ondeggiare e ad accumulare energia finché una gli entra in un occhio.
Oh! io non ce l’ho fatta più e ho cominciato a ridere e non mi fermavo più, lui che si massaggiava l’occhio che gli lacrimava e io che ridevo, vabbè poi si è messo a ridere anche lui.
Poi inizia una meticolosa descrizione del percorso, di cui confesso ho capito solo quando diceva a destra e a sinistra, ma ero troppo concentrato a non ridere ancora e sarebbe stato veramente
irrispettoso, perché mentre descriveva il percorso si curvava e si girava per ricordarsi se la sinistra che mi descriveva corrispondeva veramente alla sinistra da prendere, un po come si fa per
ricordarsi la destra muovendo la mano con cui si scrive, io guardo l’orologio per fargli fretta e lui sconfitto si ferma e mi indica una direzione, e mi fa è da quella parte! ok penso uno a uno,
tu mi hai umiliato con l’inglese, io con l’orientamento.
Saluto e vado via, faccio finta di prendere la strada indicata ma poi devio per la scorciatoia che mi porta al mercato che è una strada più bella da fare e cose interessanti da fotografare.
Mentre mi reco alla stazione penso, spero non mi capiti più, sarebbe un suicidio per un fotografo stare in un ambiente come quello e non poter scattare, ma non mi andava, mi sembrava
irrispettoso, invadente, come un entrare senza autorizzazione nella vita degli altri nei momenti intimi, non si fa, non è bello, non è giusto, e mi ricordo il primo cartello all’entrata, questo
non è uno zoo e lo condivido, molto meno il secondo anzi per niente.
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